Hic et nunc, nel significato di entità immediatamente presente e percepibile nella sua individualità (prima che l’espressione assumesse una connotazione imperativa) è un concetto che, sin dall’origine della nostra cultura, collima con ciò in cui i giapponesi sono educati sin da bambini: dare il giusto valore alla pregnanza di ogni momento del nostro vissuto, nel momento in cui lo si vive.
Così mentre noi ci “educhiamo” a fare altrettanto con tardivi e costosi corsi di mindfullness, in Giappone ci si “contamina” d’Occidente. Perché tutto comunica in uno scambio universale. Ed è ciò che si legge “fra le ombre” di Perfect Days, l’opera più recente di Wim Wenders che sta scalando le classifiche di preferenza di un pubblico che, evidentemente, premia l’Oriente perché seconda solo a Il ragazzo e l’airone di Hayao Miyazaki. Opere, entrambe, candidate agli Oscar.
Il film
Perfect Days racconta un mondo, inquadrato dal regista in 4:3, fatto di sensazioni, in cui si descrive la ritualità di piccoli gesti quotidiani scanditi dalla cura e dedizione che il protagonista dedica al proprio lavoro: per noi occidentali il più umile dei lavori ma di grande valore sociale. Hirayama, uomo solitario e taciturno, quasi invisibile, vive dell’essenziale avendo gran rispetto per il suo io interiore, e per la collettività; quella per cui cura il proprio aspetto esteriore. Coltivando nel privato la sua dedizione a un piccolo vivaio e alle sue letture. Letture che sopperiscono a una scarna vita sociale e che sono fonte di conoscenza di una cultura diversa dalla sua: la nostra. Come lo è la musica – la migliore per chi di noi l’ha vissuta – che Hirayama ascolta ancora su nastro, e che appartiene a un recente passato. Musica adatta a colmare un divario tra due generazioni: una saldamente ancorata a un mondo “analogico”, l’altra proiettata in quello digitale.
Quanto alla lettura, quella di Hirayama supplisce alla mancanza di un confronto con gli altri. Tanto più se il confronto è doloroso, di un dolore sepolto nei più profondi recessi dell’anima. A rendergli difficile il rapporto con le donne, siano pure solo adolescenti. Dolore dal quale ci si potrebbe difendere giusto col carapace di una tartaruga, quando nasce nell’ambiente familiare. Dolore di cui solo lo Skytree, la torre che domina Tokyo, è testimone. Ma il regista fa cenno al dolore silenzioso di Hirayama senza che lo spettatore sia costretto a ripercorrere tutte le sue sedute psicanalitiche: accennandone le conseguenze, senza dare giudizi.
L’essenza della comunicazione
Per tutta la durata del film si assiste a una comunicazione verbale ridotta all’essenziale: altro punto di contatto con l’origine della nostra cultura che riconosce nel superfluo l’espressione del Male; principio (per noi ormai obsoleto) che sembra informare la comunicazione di Hirayama, convinto che alcuni mondi comunichino fra loro, altri no. E quando lo fanno, avviene per lo più per canali imperscrutabili. Tutto ciò che lo (ci) circonda di fatto comunica, e può farlo addirittura in forma poetica: come la luce che filtra dalle foglie di un albero, e con essa evidentemente l’ombra che produce, se si ama fotografarla – ogni giorno, quella dello stesso albero secolare – con una Olympus analogica. Come possono “parlare” anche i gesti di un clochard. Traendo, dalla comunicazione con un mondo che solo all’apparenza è parallelo, linfa vitale come una pianta dalla luce.
E proprio con la luce dell’alba, e un inno all’ottimismo affidato alla voce di Nina Simone, si chiude il ventiquattresimo lungometraggio di Wim Wenders, sceneggiato con Takuma Takasaki, dopo un poetico coup de théâtre. Sul sorriso di Kōji Yakusho, miglior attore protagonista dell’ultimo Festival di Cannes. A rendere Perfect Days una summa del cinema del suo autore, sul solco di Tokyo-Ga, l’omaggio del 1985 al cinema di Yasujirō Ozu.
Un film che è un’elegia dell’essenziale, uno sguardo a mo’ di angelo sul Giappone contemporaneo, e una lezione, senza la pretesa d’esserlo. Soprattutto per un mondo – il nostro – in cui avremmo bisogno di un po’ d’Hirayama in noi, della sua “filosofia” di vita. Ma solo avere i “suoi” bagni pubblici sarebbe per noi un progetto ambizioso.