Privilegio di un attore è quello di vivere, per il tempo necessario, nei panni di qualcun altro con approccio diverso da quello che può offrire la lettura di un buon libro: bisogna calarsi nella sua anima per ridarle forma, oltre che dargli corpo.
Così Elizabeth Berry, giovane attrice hollywoodiana, vive una settimana ospite di Gracie Atherton-Yoo, bella ma attempata signora della provincia americana, prima di portarla in scena, in un film indipendente che racconterà gli anni in cui si invaghì di Joe, l’amico tredicenne di suo figlio; uno studente di origine coreana da cui ebbe presto una figlia – la prima di tre – con cui vissero “felici e contenti”, dopo aver scontato una pena detentiva per duplice stupro di minore.
In un’apparenza meticolosamente costruita negli anni, due grandi interpreti portano in scena un dramma psicologico – con un peculiare risvolto metacinematografico scandito da metafore desunte dal mondo animale – che si interroga sulla verità dei rapporti sentimentali (e non solo).
Dramma psicologico, May December, diretto da un fine cantore del mondo (e animo) femminile che da Lontano dal paradiso recupera il ritratto della provincia americana di fronte a storie di non conformità ed emarginazione; qui aggravato anche dal clamore mediatico che il fatto (realmente accaduto) ebbe nel 1996, con i suoi nefasti effetti sulla psiche umana.
Con echi di Messaggero d’amore (1971) di Joseph Losey e un omaggio a Luci d’inverno (1963) di Ingmar Bergman, ma soprattutto a Eva contro Eva (1950) di Joseph L. Mankiewicz, May December non ha vinto né la Palma d’oro all’ultimo Festival di Cannes, né l’Oscar per la migliore sceneggiatura originale cui era candidato. Ma solo perché negli ultimi tempi il leone di Hollywood, grazie alle major dello streaming (il film è prodotto da Netflix, e dalla stessa Natalie Portman), ha ripreso a ruggire.