In tempi in cui tanto si discute dell’impatto dell’intelligenza artificiale sulle nostre vite, sembra ormai superato parlare dei rischi cui la rivoluzione digitale espone la nostra memoria, e con essa l’empatia e l’immaginazione. Pur consapevoli di come la lettura digitale abbia aiutato i dislessici, per esempio, stiamo allo stesso tempo correndo il rischio che la rapidità con cui il nostro cervello viene costantemente bersagliato da informazioni, e dalla loro quantità, crei nuovi deficit cognitivi.
Chiunque abbia avuto la fortuna di studiare, sa che alla comprensione di un testo scritto segue la sua memorizzazione grazie alla possibilità di far scorrere sulla carta stampata una matita. Processo che coinvolge la componente visiva della nostra memoria, tanto più utile nella sua prontezza. La memoria visiva (come la si definisce comunemente) infatti funziona indipendentemente dal fatto che sulla stessa immagine che gestisce, si sia articolato un concetto. Se quindi concetto deve essere, si ricorre alla penna per scrivere su pagina una sintesi di quanto letto: ciò ha consentito a numerose generazioni normodotate di memorizzare almeno una parte di scibile umano.
Le due fasi della memoria
La memoria umana, in ogni caso, funziona mettendo in atto due processi, così come le neuroscienze indicano. Attivando cioè una memoria di lavoro, una sorta di lavagna che trattiene perlopiù sensazioni in via di elaborazione per un breve periodo in cui può trasmettere il risultato della sua elaborazione analitica alla memoria a lungo termine: quella che siamo abituati a definire memoria. Un’elaborazione analitica consente dunque all’informazione di superare la prima fase “emotiva” verificandone l’attendibilità e l’idoneità ad archiviarla: un’operazione che richiede una certa quantità di tempo.
La velocità della comunicazione digitale compromette proprio questa fase, interferendo con la nostra comprensione di un “qualcosa” che diventa inevitabilmente superficiale. Per non parlare poi dell’empatia e dell’immaginazione cognitive: esperienze peculiari, entrambe, della lettura su carta. Quelle che ci hanno consentito di vivere vicariamente la vita, per fare un esempio, di Madame Bovary – per comprenderne il mondo interiore – e di immaginare cosa noi avremmo fatto nei suoi panni; trasformando l’immaginazione creativa di Gustave Flaubert in una nostra esperienza personale. Tutte capacità che rischiamo di perdere.
La lettura è fra le ultime abilità sviluppate dall’homo sapiens
A lanciare questo allarme è stata Maryanne Wolf, neuroscienziata cognitiva alla UCLA (Università della California di Los Angeles) esperta in lettura nei bambini e dislessia, nel suo Proust e il calamaro. Storia e scienza del cervello che legge, (2009) e nel più recente Lettore, vieni a casa. Il cervello che legge in un mondo digitale (pubblicato in Italia nel 2018 da Vita e pensiero), un saggio scientifico scritto in forma epistolare “per rivolgersi al lettore come a un amico”. E con lei Chiara Palmerini sul Sole 24 ore all’indomani dell’uscita del libro di cui si è tornati a parlare recentemente sul Corriere della sera a dimostrazione di quanto il problema sia attuale.
Un allarme che parte da un semplice presupposto: nasciamo con i cinque sensi già attivi che ci consentono di apprendere e affinare le prime abilità: quelle legate al movimento, al pensiero, alla parola. Quella di leggere è un’abilità che l’homo sapiens ha acquisito addirittura dopo quella di scrivere; un’abilità affinata dunque in un tempo relativamente recente. Stabilendo una serie di interazioni tra le sinapsi di tutte le principali aree del cervello che, con l’evoluzione delle specie, è diventata appannaggio del nostro corredo genetico. Ma se queste interazioni non vengono costantemente esercitate rischiano gravi danni.
La lettura profonda
La lettura profonda è quella che Maryanne Wolf considera la prima abilità dell’uomo moderno a rischio d’estinzione nel mondo digitale, spiegando che: «Il cervello che legge è intrinsecamente malleabile ed è influenzato da fattori chiave: ciò che legge, cioè il sistema di scrittura e il contenuto; come legge, cioè il mezzo, testo stampato o schermo digitale; e come si forma, cioè come impara a leggere… Quando siamo davvero immersi in quello che leggiamo, attiviamo una serie di processi che coinvolgono tutto il cervello … Leggendo partiamo da ciò che sappiamo. Ma il detective nel nostro cervello, come Sherlock Holmes, deduce qualcosa che va oltre quanto è detto. Leggere in profondità significa elaborare l’informazione, per costituire conoscenza … Questo processo cognitivo è l’inizio dell’empatia. E della compassione».
Un processo inarrestabile che richiede adeguamento
Per Maryanne Wolf «In questa congiuntura storica, a metà del guado tra la vecchia carta stampata e gli schermi di computer, tablet e telefoni, non si sa ancora che sorte ci riserverà il futuro. In termini assoluti non è neppure vero che leggiamo meno. In realtà siamo sopraffatti dalle informazioni: l’individuo medio consuma, saltabeccando da un dispositivo all’altro, 34 gigabyte al giorno di contenuti, l’equivalente di circa 100mila parole, in pratica un romanzo lungo” al punto da avvertire un senso di vuoto in assenza di sollecitazioni. “Quello di cui siamo sempre più incapaci, sovrastati dalla massa delle informazioni da internet e distratti da mille stimoli digitali, è trovare la calma e la forza, o meglio la “pazienza cognitiva”, per affrontare letture lunghe e lente, capaci di risuonare dentro di noi, di aprire mondi sconosciuti e trasformarsi in riflessione, conoscenza e saggezza. Al computer o sui telefonini, la nostra mente è una cavalletta»; ma il rischio è che la cavalletta vi provochi un cortocircuito.
«È impossibile tornare indietro, ma forse c’è il tempo di una pausa per prendere consapevolezza di dove stiamo andando, di che cosa stiamo facendo con la tecnologia, e di che cosa la tecnologia fa a noi», la neuroscienziata ammonisce. Così l’obiettivo di Maryanne Wolf è far evolvere nelle nuove generazioni un cervello bi-alfabetizzato, in grado di leggere in modi distinti, usando la velocità quando è necessario, ma riservando tempo ed energie anche alla lettura profonda», alla stregua di quanto avviene nel bilinguismo.
Disinformazione e rischi socio-politici
Questo vale per i giovani. Ma cosa possono fare le “vecchie generazioni” già alle prese con problemi di analfabetismo di ritorno? È intanto consigliabile ridurre l’esposizione al “bombardamento” d’informazioni da social networking. Tanto più che alla fine, spiega la Wolf, «quando siamo bombardati da troppe scelte la nostra reazione immediata può essere affidarci alle informazioni che richiedono un minore sforzo intellettivo … Tendiamo a ritirarci verso le fonti di informazione più familiari, in cui ciò che già pensiamo sia “confermato” da prospettive simili. Questo potrebbe atrofizzare le nostre capacità analitiche e riflessive, fondamentali per una società realmente democratica, rendendoci vulnerabili alle fake news e alla demagogia in tutte le sue note forme. Nella guerra in Ucraina, ad esempio, vedo gli effetti pericolosi della disinformazione e, allo stesso tempo, l’aiuto straordinario che la tecnologia può dare nel connettere le persone tra loro anche in situazioni catastrofiche». Urge dunque porre le basi per un approccio consapevole, quindi responsabile, alla “cultura” digitale.