Se è vero che Omero è all’origine della cultura europea, “l’Odissea” che Matteo Garrone ci ha narrato a Venezia 80 è – a distanza di più di 2500 anni – l’espressione più bassa della “cultura” moderna. Ma niente meglio del cinema, con la sua capacità di coinvolgerci attraverso le immagini, può portare alla luce cosa cela un fenomeno sociale dalle dimensioni sempre più vaste, dai risvolti sempre più gravi e dalle soluzioni sempre più miopi.
È la migrazione verso L’Europa dall’Africa sub-sahariana il soggetto di Io Capitano, il nuovo film di Matteo Garrone – una delle 6 opere italiane in concorso alla 80° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica – presentato mercoledì 6 settembre e distribuito nelle sale dal giorno successivo per Cinema Revolution. Potrebbe essere definito docu-film, se solo lo considerassimo al netto di una componente fiabesca che è ormai diventata cifra stilistica di Garrone, sulla principale rotta che porta giovani uomini, donne, bambini africani ad attraversare il deserto con l’aspettativa di raggiungere l’Europa col loro bagaglio di sogni, fare i conti con la dura realtà soprattutto nel transitare in veri e propri centri di detenzione alla mercé dei loro aguzzini. Quindi attraversare il Mediterraneo in pochi, a caro prezzo, in condizioni disperate, spesso senza saper nuotare, ma forti della loro fede, al solo scopo di avere un futuro. Un futuro che definire migliore può valere per noi, ma non per chi non ne avrebbe altrimenti.
Il film
Così il regista ha descritto il viaggio di Seydou e Moussa che lasciano Dakar per raggiungere l’Europa: “Io Capitano nasce dall’idea di raccontare il viaggio epico di due giovani migranti senegalesi che attraversano l’Africa, con tutti i suoi pericoli, per inseguire un sogno chiamato Europa. Per realizzare il film siamo partiti dalle testimonianze vere di chi ha vissuto questo inferno e abbiamo deciso di mettere la macchina da presa dalla loro angolazione per raccontare questa odissea contemporanea dal loro punto di vista, in una sorta di controcampo rispetto alle immagini che siamo abituati a vedere dalla nostra angolazione occidentale, nel tentativo di dar voce, finalmente, a chi di solito non ce l’ha”.
Il titolo esprime proprio la condizione di uno dei due protagonisti che si ritrova – senza saper neanche nuotare – al comando del natante di fortuna per la traversata in mare. Nato sulla base di una serie di testimonianze, come espressamente dichiarato dal regista, il film è stato sceneggiato da Matteo Garrone, Massimo Gaudioso, Massimo Ceccherini, Andrea Tagliaferri; sottotitolato perché gli attori, senegalesi, hanno recitato in wolof, la loro lingua madre. Doppiarli è stato considerato inappropriato. Premiato con il Leone d’argento per la regia, Io Capitano ha vinto anche il Premio Marcello Mastroianni per l’interpretazione di Seydou Sarr, uno dei due protagonisti, miglior attore emergente.
A Matteo Garrone è andato anche il Premio Civitas “per la capacità di accompagnare l’odissea dal Senegal all’Italia di Seydou e Moussa (Seydou Sarr e Moustapha Fall) senza abdicare alla speranza, esaltando il valore della solidarietà intergenerazionale e della coesione sociale”.
Il regista
Già premiato sceneggiatore (e produttore, come in Io Capitano, film co-prodotto da Rai Cinema), Matteo Garrone diventa regista di fama internazionale grazie al Grand Prix speciale della Giuria al Festival di Cannes 2012 per Reality dopo una serie di David di Donatello vinti per l’Imbalsamatore (2002, per la sceneggiatura) e Gomorra (2008) che gli valse il primo David di Donatello per la regia. Ne otterrà un secondo nel 2015 per il pluripremiato Il racconto dei racconti, al quale seguono Dogman (2018) e Pinocchio (2019). Garrone aveva già raccontato di emigrati in Terra di mezzo e Ospiti (1998).
Alberto Barbera, direttore artistico della mostra, così ne ha parlato a Ciak: “Garrone rinuncia al barocchismo stilistico e visivo dei suoi ultimi film e sceglie invece una narrazione semplice e diretta assumendo interamente il punto di vista dei due protagonisti”.
Per noi Matteo Garrone ha saputo realizzare un film “tecnicamente” bello su un tema veramente difficile da proporre al grande pubblico. Ciò che il film rappresenta supera di gran lunga i concetti di odissea o di calvario: Garrone ha reso possibile l’impossibile. A lui il nostro miglior augurio che il successo di Io Capitano varchi presto i confini nazionali facendo la differenza.
Le migrazioni
La Storia è fatta di migrazioni; e anche la storia del nostro Paese ne annovera una non così lontana, più volte raccontata dal cinema americano. Di un paese con una previdenza sociale a rischio di collasso poiché non vi sono abbastanza giovani a garantirne il futuro con il loro lavoro (senza avere alcuna garanzia di fruirne a tempo debito), dove sarebbe auspicabile favorire l’integrazione di molti di quelli che lo raggiungono alla ricerca di un futuro, indipendentemente dal colore della loro pelle.
Ma ciò richiede procedimenti che nella realtà sono di difficile attuazione. La normativa in vigore infatti – e la legge Bossi Fini in particolare – pone i migranti in flagranza di reato per il solo fatto di aver raggiunto le nostre coste o varcato i nostri confini. E li bolla come “clandestini”: una legge ingiusta che resta pressoché immutata dal 2002. Senza contare tutti quei più recenti decreti che di “sicurezza” ne hanno garantita solo una: cariche politiche ottenute sulle sventure di chi è nato – per puro caso – nella porzione meno fortunata di globo terrestre.
L’empatìa, unico antidoto all’indifferenza
E se noi quest’estate ci siamo lagnati per effetto dell’anticiclone africano, che a causa delle mutazioni del clima in atto ci ha fatto ansimare per qualche giorno al di sopra dei 40 gradi, proviamo ora a fare un esercizio di empatìa: quella disposizione d’animo di cui non si parla mai abbastanza, unico antidoto all’indifferenza. A quell’indifferenza tanto avversata da Papa Francesco, pontefice di un popolo che troppo spesso si professa cristiano, ma che è a malapena cattolico.
Proviamo a pensare alla condizione di chi attraversa il deserto con temperature per noi proibitive, senza scorte d’acqua né cibo, per poi imbarcarsi (un eufemismo) sul Mediterraneo senza aver mai visto il mare in tutta la vita. Mare che a tutti noi la prima volta che lo abbiamo “toccato” un po’ di apprensione l’ha data. E se questi giovani lo affrontano, e non solo, in mancanza di alternative, più di una responsabilità ce l’ha proprio l’Europa, fin dai tempi lontani del colonialismo.
Dopo tanti, troppi, naufragi con il loro pesante fardello di vittime, è poi sempre più difficile tuffarsi serenamente nelle onde di quel mare che in passato è stato culla di grandi civiltà, senza che il pensiero vada alle migliaia di morti.
Una sensazione condivisa da Roberto Saviano in un editoriale su Sette, magazine del Corriere della sera, del 18 agosto scorso, riflettendo sull’immagine di un mare azzurro, calmo, assolato. Ne riproponiamo qui la lucida chiusura: “289 bambini sono annegati in questo mare negli ultimi 6 mesi. Non c’erano le Ong in mare e la guardia costiera non può essere onnipresente. Sapete come annega un bambino? Strilla spaventato, apre la bocca e gli entra acqua, e ancora acqua. Continua a strillare e a cercare la madre sino a quando non va giù come piombo. Così sono morti 289 bambini mentre l’Europa non dà risposte e l’Italia ferma le navi ambulanze”.