L’industria del cinema americano sembrava definitivamente travolta dagli scandali legati al #metoo, i danni da pandemia – che hanno impegnato a lungo i set con estenuanti misure di sicurezza mentre le sale restavano chiuse – e l’avvento dello streaming, causa di un lungo sciopero e braccio di ferro tra addetti ai lavori e gli organismi a tutela di un settore che, come tutto lo spettacolo nel mondo, non è fatto solo di privilegiati. Ma tutti questi svantaggi hanno innescato uno “scatto” di creatività mentre il pubblico ritornava in sala per vedervi Oppenheimer e Barbie, due film campioni d’incassi con poco d’altro in comune. Creando un altro di quei miracoli di cui solo il cinema è capace: la vittoria del Golden Globe della prima nativa americana, Lily Gladstone, migliore attrice protagonista in Killers of the Flower Moon, l’ultima “epopea” di Martin Scorsese.
Cresciuta in Blackfeet
Attrice apprezzata dalla critica, che la candidò a un Indipendent Spirit Award per il suo ruolo in Certain Women di Kelly Reichardt, Lily Gladstone nel ricevere il Golden Globe ha esordito ringraziando il pubblico – e naturalmente Scorsese e Di Caprio – in Blackfeet, la cosiddetta “lingua dei piedi neri”, quella della sua comunità d’origine nella riserva del Montana. Iniziativa che esprime la consapevolezza dell’importanza politica del premio che, in un contesto “patinato”, ha acceso i riflettori su una delle categorie più svantaggiate d’America: quella dei nativi. E sulle differenze culturali che esistono tra le diverse comunità, comprovate dall’impegno dell’attrice nell’apprendere sugli Osage – la comunità di nativi di cui il film racconta – quanto richiesto dal copione. Fino a farne un’autentica consulente sul set, e “il pilastro” (così definita dal partner di scena Leonardo Di Caprio) di un film che racconta “il regno del terrore”: uno dei periodi più bui vissuti dalla comunità Osage.
Trentasettenne dall’imponente presenza, rivedremo presto la Gladstone nella serie streaming Reservation Dog. Ma è chiaro che questo premio darà un nuovo corso, in attesa degli Oscar, a una carriera che l’ha esposta a più di un episodio di discriminazione. In situazioni che l’hanno riportata con la memoria al tempo degli studi universitari, comunque portati a termine con determinazione e successo.
I film premiati
Il cinema è spesso culla di rivoluzioni culturali. Vero è che nel cosiddetto star system prevale il mercato sulla cultura. Quindi, proprio per questo, è significativo il trionfo ai Golden Globes di Poor Things, la migliore “commedia” interpretata dalla migliore attrice, Emma Stone, per la portata rivoluzionaria del suo messaggio. L’utopia femminista in chiave gotica di Lanthimos, nelle sale cinematografiche italiane col titolo Povere creature! dal 25 gennaio, narra la vicenda di una donna che, grazie al trapianto del cervello del proprio feto, fa conoscenza del mondo, e del sesso, senza i pregiudizi di quella che sarebbe di fatto la sua età anagrafica, con la stessa brama di sapere di una bambina. Che poi la sua sfrenata voglia di conoscenza coinvolga anche la sfera del sesso rende il film più interessante. Ma la portata rivoluzionaria del film sta nel rappresentare un’ideale di determinazione femminile assolutamente inedito. Nonché una sfida epocale per la protagonista, per tutte le “sfumature” del ruolo.
Importante, pur scontato, anche il trionfo di Oppenheimer che ha vinto 5 Golden Globes per essere stato il miglior film drammatico, diretto dal miglior regista, interpretato dai due migliori attori (Murphy protagonista, Downey Jr. non protagonista), sulle note della migliore colonna sonora. Di un’opera smaccatamente americana, che tuttavia racconta, con rigore storico-scientifico, anche le trame governative dietro la corsa, il test e l’utilizzo della bomba atomica durante la Seconda Guerra Mondiale.
Il Golden Globe per il miglior film di animazione è infine andato – e c’era da aspettarselo – a Il ragazzo e l’airone di Hayao Miyazaki.
Rivoluzionarie in paillettes
Ma la cerimonia dei Golden Globes, tenutasi al Beverly Hilton Hotel di Los Angeles, per la prima volta a cura della Golden Globe Foundation dopo lo scandalo che ha travolto la Foreign Press Association, ha avuto più di una protagonista del nuovo trend culturale americano. Quello che attribuisce alla musica pop in tour il potere di risanare l’economia del paese, sulla base di “miracolose” previsioni di crescita del Pil, il prodotto interno lordo. Mi riferisco a Taylor Swift e al giro d’affari innescato dal suo tour mondiale; e per l’influenza positiva che la superstar del pop avrebbe sulle nuove generazioni, che l’ha impressa sulla copertina del Time di fine anno.
Peccato però che non tutti i suoi innumerevoli fan siano in età da voto, nel momento in cui più di un meme la consacrerebbe miglior candidata alle Presidenziali americane (senza mai essersi candidata). L’instancabile Swift – immancabile ai jet-set parties e sulle pagine dedicate – ha anche quella sera fatto parlare di sé più per un abito Gucci verde paillettes, e per un episodio di gossip che l’ha coinvolta indirettamente.
Anche la rivoluzione femminista alla Barbieland ha avuto il suo magico momento fuxia: grazie alla “barbiestyled by Giorgio Armani” Margot Robbie che, con la regista di Barbie Greta Gerwig, è riuscita ad agguantare un Golden Globe per il Cinematic and Box Office Achievement del film che tanto ha fatto discutere. In conclusione una domanda è lecita: riuscirà tutto ciò a innescare quella che sembra la rivoluzione americana più ambiziosa, salvare cioè il paese da Donald Trump? Chi vivrà (è proprio il caso di dirlo) vedrà.