Londra, anni Ottanta. Adam e Harry, due giovani sconosciuti, vivono sospesi nella verticale di un improbabile grattacielo disabitato, di cui sono gli unici inquilini. Una sera Harry trova nel whisky il coraggio di suonare alla porta di Adam. Gli fa capire senza mezzi termini di esser gay sperando che l’altro lo accolga in casa; ma così non va. Tornano allora entrambi alle loro solitarie esistenze finché un giorno iniziano a frequentarsi: prima in privato, per conoscersi meglio, poi in pubblico per vivere in coppia la vita notturna dei locali gay – luoghi d’elezione per incontri prima dell’era digitale – tra sesso e droga, sulle note della musica di allora.
The Power of Love
Nei momenti più intimi, come avviene in tutte le relazioni umane indipendentemente dalla loro connotazione, l’uno confessa all’altro il proprio passato. Ma mentre Harry sembra aver “archiviato” la sua pur difficile infanzia, l’altro no. Al punto di tornare con la mente (e in modo fuorviante per lo spettatore) ai propri genitori persi in un incidente. Genitori che, alla sua confessione d’omosessualità, lo abbandonano dopo aver ripercorso insieme i momenti peggiori della sua adolescenza. Per lui questo sarà l’ennesimo abbandono, nonostante Harry sia nel frattempo rimasto al suo fianco, condividendo la sua difficile ricerca di sé.
Negli occhi dello spettatore
In ogni omosessuale c’è di certo un vissuto di dolore, emarginazione e solitudine. Ma non solo in lui: chiunque di noi ha subìto torti nel suo percorso di autodeterminazione, tanti sono i motivi per cui ci si può ritrovare oggetto, per esempio, di atti di bullismo. Basta essere “diversi; ma tutti lo saremmo, qualunque ne sia il pretesto. Ciò premesso, nel soddisfare la mia naturale curiosità di come l’omosessualità venga rappresentata, immerso nel buio di un cinema, ho ben apprezzato come dei protagonisti sia descritta l’estraneità: al mondo, a sé stessi, gli uni nei confronti degli altri. E di come nel film venga raccontata quella di certi genitori riguardo alla non conformità e ai problemi dei figli in età adolescenziale.
Ma ho anche riflettuto sull’importanza del porsi – parafrasando un celebre detto – sempre negli occhi dello spettatore, soprattutto quando si scrive un film; e sui danni che una sceneggiatura troppo “fluida” possa recare a un’opera che oscilla tra il reale (di fatto poco presente, come se la vita dei gay fosse limitata a discoteche, alcool, droga ed egocentrica ricerca di sé) e un mondo ultraterreno dai confini inevitabilmente sbiaditi. Per non parlare poi di come nel film venga affrontato il tema dell’AIDS – quasi relegato alla colonna sonora – benché all’epoca avesse un certo peso nelle comunità gay. Insomma, Estranei sembra indulgere troppo nel compiacersi, scivolando nell’autoreferenzialità.
È opinione comune che l’arte offra a ognuno di noi un messaggio diverso. Ma qui, in mancanza di chiarezza, il messaggio rischia di sfuggire al destinatario. Peccato non aver sfruttato appieno la lezione di The Others, film del 2001 nato dal genio di Alejandro Amenábar.
Liberamente tratto dall’omonimo romanzo di Taichi Yamada, Estranei è ben interpretato da Andrew Scott e Paul Mescal, e da Claire Foy e Jamie Bell nei ruoli dei genitori adottivi. Intitolato in originale All of Us Strangers, il film è sceneggiato e diretto dal britannico Andrew Haigh.