di Antonio Facchin
Aleksej Navalny, il principale e più noto oppositore di Vladimir Putin, leader del partito Russia del Futuro e dirigente della Fondazione anticorruzione, il 4 agosto scorso è stato condannato a 19 anni di reclusione (che si sommano ai 9 già comminati per frode) con l’accusa di “estremismo”. Alla sentenza “spropositata” emessa al termine di un “processo farsa” si sono sollevate le proteste delle “Nazioni Unite, del presidente del Consiglio d’Europa, dell’Alto commissariato per i diritti umani, di vari governi e premi Nobel” come sottolinea Barbara Stefanelli il 18 agosto scorso in un articolo in apertura di Sette, il news-magazine del Corriere della Sera di cui è direttrice.
Ma la notizia della nuova sentenza non ha trovato un adeguato riscontro sulla stampa italiana, come denunciato da Giuliano Ferrara sul Foglio che l’ha definita “una mezza notizia”. Concordiamo che su questo argomento non si debba mai abbassare la guardia, a sostegno anche delle manifestazioni e appelli che chiedono l’immediata scarcerazione di Navalny. Come quella svoltasi il 4 giugno scorso a Mosca in occasione del suo 47° compleanno, che si è conclusa con l’arresto di 90 manifestanti.
Da blogger a dissidente
Che sia la guerra in Ucraina in primo piano a offuscare tutte le altre malefatte di Putin? Sta di fatto che il popolare blogger deve la vita – in un regime incline ad avvelenare gli oppositori – proprio alla sua notorietà. A tutti quei media digitali cui è ricorso a partire dall’ormai famoso blog, grazie ai quali è riuscito a sfidare Putin alle ultime elezioni. Eliminare Navalny ora, in piena guerra è diventato tuttavia più difficile: sotto gli occhi del mondo, in un momento di serie difficoltà sul fronte militare e di ordine interno come un’inflazione fuori controllo. Quindi meglio costringerlo a un regime carcerario estremo da far rimpiangere la Siberia di una volta. Fermo restando che un serio rischio d’avvelenamento permane.
Sopravvissuto al Novichock
Ed è noto che, prima dell’invasione ucraina, un tentativo di avvelenarlo ci sia stato, e anche ben orchestrato: Aleksej Navalny fu avvelenato per contatto da Novichock poco prima d’imbarcarsi su un volo di linea che, al manifestarsi dei gravi sintomi del passeggero, invertì la rotta. Dopo qualche giorno di coma in terra natìa – quanto è bastato per far sì che l’agente nervino di fabbricazione russa si “diluisse” nel suo organismo e i medici omettessero un esame clinico fondamentale per rilevarne la quantità nel sangue al momento del ricovero – il dissidente fu trasferito d’urgenza in Germania su espressa richiesta dell’allora Cancelliera Angela Merkel perché fosse curato.
Ma non appena rimise piede in Russia, il 17 gennaio 2021, fu arrestato e da allora non è più uscito di prigione. E Alexander Murakhovsky, il primario del pronto soccorso che l’aveva curato dopo l’ospedalizzazione, è nel frattempo misteriosamente scomparso. Insomma, senza “rivoluzione” digitale Navalny sarebbe già l’ennesimo compianto dissidente, alla stregua dell’ex copresidente di Alleanza democratica Boris Nemtosv, assassinato il 27 febbraio 2015.
Un caso controverso
Lunga è la lista di dissidenti meno noti dietro le sbarre: Vladimir Kara-Murza, Ilya Yashin, Yevgeniya Berkovich, Svetlana Petriychuk. Ma a questi, come riferisce Barbara Stefanelli, si sommano “voci critiche della guerra e al Cremlino, direttori di teatro, drammaturghi”. E se di questi si sa poco o nulla, ciò che divide l’opinione pubblica nel caso di Navalny è la totale mancanza di chiarezza dell’informazione all’origine che rende il caso controverso. Basti dire che contro di lui si schierò più di un’organizzazione a tutela dei diritti civili a seguito della diffusione di alcuni filmati giudicati “di istigazione all’odio”. Tuttavia Amnesty International dopo l’ultimo arresto ne ha chiesto, con un appello siglato da 4740 firme, la scarcerazione immediata. Ma in attesa che si concluda l’ennesimo processo in corso, questa volta per terrorismo – quella di Navalny è diventata “una condanna a vita”: che sia la sua, o quella della durata del regime, dipenderà dal prossimo futuro.
Lo sguardo di Roger Cohen sulla Russia di Putin
“Il putinismo è una collezione di contraddizioni”, spiega Roger Cohen in uno straordinario reportage per il New York Times cui Barbara Stefanelli fa esplicito riferimento, “che fa convivere tracce di nostalgia sovietica con l’espressione di un capitalismo penetrato da nuove mafie, la devozione ritrovata alla Chiesa ortodossa con attacchi all’Occidente, descritta dalla propaganda quale terra di pericolosi attivisti Lgbtq+ votati alla «sostituzione culturale» dei valori patriottici. Tutto tenuto insieme da un triplo laccio: mitologia, controllo dei soldi, esercizio della paura. La guerra in Ucraina, come prima quelle in Cecenia e in Georgia, giustifica la brutalità essenziale del sistema e scredita chiunque crei complicazioni”. Questo è il motivo per cui Cohen sceglie di chiudere il suo lucido reportage proprio sul ponte dove nel 2015 venne assassinato quel Boris Nemtosv che già allora aveva “profetizzato” ciò cui stiamo assistendo per lo più impotenti.