Se intelligenza artificiale e femminicidio sono state le parole più ricorrenti nella narrazione del 2023, terrorismo rischia di essere il “sottotesto” del 2024. Anno in cui ben 4 miliardi di persone si recheranno alle urne, in 76 paesi, di cui molti con regimi illiberali, dove il terrorismo è il vessillo brandito per perpetuare il potere. Altri con democrazie messe in serie difficoltà da derive nazionalistiche sull’eco di vissuti totalitarismi.
Il terrore, un sentimento cui siamo ormai abituati ad associare connotazioni “moderne” come sanitario, climatico, informatico, la Storia insegna che è da sempre un instrumentum regni quando è esercitato dai governi. Si definisce terrorismo se è “metodo di lotta politica organizzato da gruppi rivoluzionari e sovversivi che, considerando impossibile conseguire con mezzi legali i propri fini, tentano di destabilizzare o rovesciare l’assetto politico-sociale esistente con atti di violenza organizzata”; va da sé che evidentemente le vie alternative siano state già inutilmente percorse, nel migliore dei casi.
Nulla può giustificare il terrorismo. Ma ogni fenomeno ha almeno una causa, e il terrorismo non fa eccezione. E troppe volte il terrorismo è un pretesto per giustificare una guerra: come quelle seguite all’attentato alle Twin Towers, recentemente sconfessate dallo stesso Joe Biden. O come nel caso del recente conflitto di Israele contro Hamas, o del progetto di Putin di “denazificare” l’Ucraina: guerre che si profilano come autentici genocidi per fermare i quali a nulla valgono le condanne internazionali per crimini di guerra.
Bangladesh, primo paese alle urne nel 2024
Il primo paese chiamato alle urne nel 2024 è stato il Bangladesh dove il 7 gennaio Sheikh Hasina, leader della lega Hawami, ha ottenuto il suo quinto mandato (è al potere da 4 mandati consecutivi, ininterrottamente dal 2009) battendo Khaleda Zia. Leader del Bnp, il partito nazionalista bollato dalla Hasina come terrorista e violento, la Zia è un’oppositrice storica della Hasina, agli arresti domiciliari dopo due mandati di governo con l’accusa di corruzione. Un “caso” che ricorda, con le dovute proporzioni, quello di Aleksej Navalny.
Tarique Rahman, che vive in esilio a Londra da cui guida il partito d’opposizione dal 2018, anno dell’arresto di Khaleda Zia, sua madre, aveva invitato a boicottare il voto. E così è stato: parte del paese non si è recato alle urne per protesta. Il risultato era infatti scontato e le elezioni di fatto una farsa: forte di un Pil e prestigio internazionale in crescita, la vittoria di Hasina era certa, in un paese in cui l’opposizione – se non eliminata senza scrupoli – è da tempo in prigione, l’inflazione galoppa, il costo della vita aumenta e il governo detiene il monopolio dei pochi posti di lavoro.
Taiwan e la minaccia cinese
Sabato 13 gennaio con la vittoria di William Lai, subentrato a Tsai Ing-wen, Taiwan ha un nuovo leader senza aver cambiato partito di governo: quello progressista, alla guida dell’isola negli ultimi 8 anni a salvaguardia dell’indipendenza dell’isola dalla Cina, che da tempo minaccia un’invasione militare data per certa entro il 2027. Taiwan, fulcro degli “equilibri” tra Cina, Stati Uniti e Russia, si è recata alle urne in un clima di calma apparente, registrando una significativa affluenza della popolazione più giovane. In un paese da tempo sotto l’attacco del terrorismo informatico, con sistematiche operazioni di hackeraggio, nell’obiettivo di spiarlo e indebolirlo. Ma dopo l’esito del voto la Cina è passata al contrattacco con minacce esplicite, rivolte in particolare agli Stati Uniti; paese che dietro al vessillo della difesa della democrazia, è quello che fornisce armi all’isola.
Una conferma scontata
Dal 15 al 17 marzo si voterà in Russia. Ma dopo l’esclusione per “vizi di forma” dalla competizione elettorale della giornalista Yekaterina Duntsova, definire la Federazione russa un’oligarchia farebbe infuriare anche i Greci antichi. Unico candidato, dunque, alla presidenza dal 2000, in anni in cui ha sistematicamente eliminato ogni forma di dissenso con la scusa del terrorismo, sostenuto tiranni in guerra contro il proprio popolo, corrotto politici di paesi democratici, inondato il mondo delle fake news prodotte da una task force dedicata, ingerito negli equilibri politici internazionali con ogni mezzo illecito, invaso un paese sovrano, aver utilizzato le risorse energetiche del proprio paese come arma di ricatto mentre veniva colpito da un’accusa internazionale per crimini di guerra, Vladimir Putin si “sottopone” al plebiscito popolare. Perché anche un “moderno zar” gioca la carta del voto, nell’eterno conflitto tra verità e apparenza.
Democrazia sotto assedio
I proclami populisti all’indomani della vittoria in Iowa hanno sortito l’effetto voluto: Donald Trump ha vinto le primarie anche nel New Hampshire contro una tenace Nikki Haley, dopo il ritiro dalla competizione di Ron DeSantis. In attesa del traguardo di fine anno, la “vittima” Trump partecipa alle primarie giusto in virtù di un ricorso accolto dalla Corte Suprema degli Stati Uniti, come ricorda Affari internazionali, dopo l’accusa della Corte Suprema del Colorado perché “leader effettivo e in pieno supporto dell’assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021, riconosciuto come atto d’insurrezione”. Così, nella consapevolezza che la democrazia sia la forma di governo più evoluta al mondo, e come tale la più difficile da gestire, siamo a un passo dal comprometterne una rodata. Al grido di “o sarò Presidente, o sarà caos”; anche in questo caso terrore e terrorismo hanno la stessa matrice.